Ben oltre il mezzo del cammin di vita mia, mi ritrovo come al solito, fluttuante in una bolla di mal d’esistere, mentre mi aggiro inquieto nella dimora solitaria della mia asocialità.
A volte esco dall’eremo della mia anima malata per tornare a calpestare (con disprezzo) questo letamaio chiamato mondo.
La mia divisa nera marca la differenza fra me e i carnefici in camice bianco e uniforme blu.
Gente senza volto comunica con sorrisi di plastica e convenevoli mendaci, con sguardi grigi e persi nel vuoto del delirio catodico che rivela la paresi del cervello televisato.
Mi porto dietro l’AK47 Kalashnikov e lo impugno con marziale fierezza, come fossi sempre pronto a far fuoco, anche se per la verità è scarico e inceppato. Se mi venisse voglia di oliarlo per bene e di cercare le munizioni, potrei tornare a sparare a raffica sull’orrore e l’atrocità, ma il punto è proprio questo: non so se ne ho ancora voglia, sia di lubrificare e caricare il mitra, sia di far fuoco.
Nella mia tana d’insofferenza e negazione dell’esistente lascio una pistola con un sol colpo, questa si sempre lucida ed efficiente e pronta all’uso.
In un cassetto della mente tengo anche una siringa piena di anestesia istantanea al mal di vivere, ma sono cosciente che i danni di questa anestesia superano di gran lunga i benefici, quindi mi premuro sempre di controllare che questo cassetto sia ben chiuso, con la chiave riposta in qualche angolo oscuro e poco accessibile della memoria.
Cammino tenendo istintivamente la sinistra come i vecchi soldati del fronte così ho la destra libera per colpire e sono riparato a sinistra. La gente mi guarda da destra e non capisce, pensa che sia un vetusto animale fuggito da qualche museo di storia antica, quando sul pianeta non erano ancora comparsi Nike e cellulari.
Parto e mi avventuro da solo sui miei tortuosi percorsi cerebrali, popolati da spettri e fantasmi d’ogni genere.
Osservo luci gialle che bucano la notte tagliando l’aria gelida del deserto di dolore, percepisco mostri che mi sfiorano passandomi accanto senza il coraggio di guardarmi in faccia, li vedo scaricare enormità di follia sul mio cammino.
E donne pallide ed esangui che si aggirano nei meandri più reconditi dei miei pensieri, accendendo desideri torbidi e avvelenati, caduchi come le verità della vita, per poi lasciare voragini di frustrazione e insoddisfazione.
Scorgo auto che sfrecciano ai 180 all’ora verso il nulla totale di neon luminosi di mille colori.
Guardo stancamente, schivo e sprezzante, imbecilli seri e compassati che decidono al posto mio cosa sia meglio o peggio per me.
Contemplo l’eterno ritorno del buio e del nulla, del sangue e del dolore, dell’assurdità della giovinezza e dell’infamia della vecchiaia.
Mi rivedo giovane, sfuggito ad un inseguimento della polizia, nel mezzo della notte al centro della città, all’angolo fra Via Po e Piazza Castello, ritrovare Monica, anch’essa braccata dagli sbirri; e fuggire insieme su un’auto rubata, col cuore in gola, verso il grande Nihil della vita…
Scruto il cadavere di un uomo morente, di nome Franco, abbandonatosi di recente in tarda serata davanti ad un Amedeo di Savoia indifferente e impietosamente chiuso nelle ore notturne, salvato poi da un Narcan senza speranza dall’overdose di bisogno di vita reale.
Intravedo una persona molto più disperata di quel che dice di essere, ferita dal passato, dilaniata dal presente e lacerata dal futuro.
Vedo un sacco di cose che voi umani…
Mah, porcoddio, sfigatissimamente sono ancora vivo, condannato a vivere e a subire.
Domani esco e vado a cercare cartucce per l’AK47, lo olio e lo ripristino all’uso, anche se per la verità, in attesa del tramonto di questa nuova alba, non ho ancora sciolto il dubbio se sia meglio impugnare e far fuoco col Kalashnikov o con la pistola dal sol colpo in canna.
Franco, gennaio 2005
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